Da tempo, anzi forse da sempre, Gioele Dix non è solo un comico. La sua “animalità” da palcoscenico è al servizio di una ricerca d’autore. Poi il garbo sornione, il talento per la battuta, il sound dell’umorista rendono i suoi esercizi di pensiero terribilmente divertenti, ma lo spasso è un mezzo non un fine. La sua è un’affabulazione elegante, esistenzialista, quasi jazz nel gusto per la variazione. Nel nuovo monologo “Vorrei essere figlio di un uomo felice” entra in scena canticchiando I borghesi di Gaber, come a dire che spesso i padri dimenticano di essere stati figli, quindi scarta e passa a Omero, con un’Odissea commentata dal punto di vista di Telemaco, il figlio in attesa di un padre che non torna, il ragazzino cresciuto all’ombra dell’eroe assente quindi ancor più ingombrante. Gioele Dix è maestro nell’arte della digressione, delle parentesi (ne apre parecchie, le chiude quasi tutte) e delle associazioni. C’è dunque Omero, letto anche in greco e così poter deviare su gustose reminiscenze di studi classici, ma ci sono soprattutto le molte note al testo: personali, letterarie, esilaranti. Chiose e postille umoristiche, ma non solo, in un divagare che ha il ritmo di una riflessione in corso. Ridiamo e ci inteneriamo per la goffaggine di Telemaco ma scopriamo anche il suo coraggio nel cercare di sbrogliare la pesante eredità paterna. Ci facciamo un’idea di che cosa facesse Ulisse con Calipso sull’isola di Ogigia, poi però compare Elena, non più giovane, così come la immagina Ghiannis Ritsos. Perché si ragiona anche della vecchiaia e della morte dei padri, e qui servono Milan Kundera e Valerio Magrelli, che accompagna verso la dedica finale, commovente. Sara Chiappori, Repubblica 22 novembre 2018 “L’Odissea del figlio di Ulisse, ovvero come crescere con un padre lontano”, si dipana nei primi quattro canti del poema, poco frequentati proprio perché il protagonista è assente: a rubargli la scena c’è Telemaco, cresciuto orfano e con madre assai astuta quanto lacrimosa. Ma bando a Freud: quello che interessa a Dix è “solo” il viaggio, interiore ed esteriore, del giovane uomo, ingenuo e spaesato, timido e pauroso, per non dire un po’ ciuccio, con buona pace del grande “sceneggiatore” Omero, che gli mette in bocca frasi pensose, come appunto “vorrei essere figlio di un uomo felice”…. La classicità è una fonte così frizzante e ricca di stravaganze da rendere superflua qualsiasi altra recita nella recita: allo spettatore basta poco per godere di (e insieme con) questi greci poliamorosi e politeisti, disinibiti e goderecci, con un dio sempre a portata di mano, persino nelle sciagure, e l’irrituale capacità di trasformare una celebrazione in una grigliata. Sono i nostri antenati eroici e, proprio per questo, terribilmente emotivi: quando non fanno la guerra, o l’amore, passano il tempo a piangere. Camilla Tagliabue, Il Fatto Quotidiano 23 novembre 2018 C’era una bella atmosfera, l’altra sera, al teatro Sociale, per “Vorrei essere figlio di un uomo felice”, monologo di e con Gioele Dix. Il pubblico si è radunato folto nella sala, riempiendo il Sociale fino alla piccionaia. Un segno di grande simpatia e affetto per l’attore sul palco, figura che sa coniugare vis comica e contenuti colti, declinati sapientemente. Dix portava in scena un testo, nato due anni fa, come reading intorno ai primi quattro canti dell’Odissea di Omero e poi divenuto qualcosa di nuovo, un viaggio nel viaggio, per esplorare un tema gigantesco: il rapporto tra padri e figli. Un lungo cammino, simboleggiato anche dalla “strada azzurra” nella evocativa scenografia, che parte dalle vicende di Telemaco, il figlio di Odisseo, in cerca del proprio padre e del proprio ruolo del mondo. Con sguardo tenero e bonariamente ironico, il narratore Dix ripercorre le avventure del giovane, i suoi incontri, la ricerca di un padre la cui assenza pesa. Per quante sono le tappe di quella “odissea minore” che è la Telemachia, Gioele Dix ha costruito un susseguirsi di “deviazioni”, di approfondimenti, immediati o meno, con la letteratura e la musica, ma anche con i ricordi personalissimi, fino all’infanzia. Da Gaber, con la canzone “I borghesi”, alla prosa di Paul Auster, dalla Genesi a Milan Kundera, erano tanti i segnali lanciati al pubblico, per raccontare quel legame magico, ma anche doloroso e spesso irrisolto, che lega le generazioni, in un fatale intreccio tra insegnamento e conflitto. L’efficace mix tra registi e tra letteratura e ricordi ha reso il testo immediato e fruibile per tutti, tra risate e qualche segreta lacrima di commozione… Sara Cerrato, La Provincia 11 aprile 2017
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